non è solo una questione di vicinanza geografica, il problema di questi paesi è che sono relegati ad una situazione semi-servile analoga a quella del colonialismo occidentale ottocentesco poi, ed all'assolutismo turco-ottomano prima.
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La profezia dello Scià
di ENZO BETTIZA
Fu a Teheran, nella reggia di Niavaran, che in compagnia dello Scià di Persia passai uno dei più strani Natali della mia vita. Era il 25 dicembre del già tormentato e insidioso 1978. S’avvertiva da tanti segni che la lunga meteora dinastica di Reza Pahlavi, iniziata nel 1941 quando aveva soltanto 22 anni, era in apparente discesa. Dico «apparente» perché in realtà era già in caduta libera; e lo era quasi all’insaputa del diretto interessato che, con ogni probabilità, non prevedeva che la fine del suo regno era prossima più di quanto lui stesso e i suoi consiglieri potessero immaginare.
Lo scenario di una piazza dapprima inquieta, poi movimentata, infine di colpo violenta, doveva esplodere il 7 gennaio 1979 nella drammatica rivolta di massa che di lì a pochi giorni, il 16 gennaio, avrebbe costretto lo Scià alla fuga dall’Iran. Il grande vincitore dalla fluente barba bianca, gli occhi fiammeggianti, il turbante nero degli sciiti sulla testa, l’ayatollah RuhollahKhomeini, rientrava il 1° febbraio a Teheran per instaurarvi, dopo unesilio di 16 anni, la «Repubblica islamica» di cui lui sarebbe diventato il padre e la guida religiosa assoluta. Quell’imprevedibile, quasi improvviso cambio totale di regime e di clima s’era svolto in un crescendo di premonizioni psicologiche e di violenze fisiche che nei velocissimi ritmi di piazza, reiterati, incalzanti, inarrestabili, ricordavano alla rovescia per tanti aspetti lemanifestazioni di rigetto e gli orrori repressivi cheda due settimane insanguinano Teheran.
Le folle del ’79, anche allora in gran parte giovanili, s’avventavano contro la dura autocrazia laicizzante dei Pahlavi; oggi, dopo un trentennio di teocrazia fondamentalista, spietata quanto ambigua, sembra risuonare nei cieli foschi dell’Iran la sveglia del contrappasso; le irate folle giovanili odierne prendono di mira non solo i brogli elettorali, che hanno ridato la presidenza a Mahmud Ahmadinejad sottraendola al moderato Hossein Mousavi, ma in senso lato fanno capire al mondo che la democrazia di facciata, manovrata da vecchi preti inturbantati, è un imbroglio anacronistico che non risponde più alle esigenze di un società iraniana avida di progresso e di modernità.
Mi ritorna di riflesso in mente l’atmosfera d’insoddisfazione e di protesta che serpeggiava per la capitale iraniana negli ultimi giorni del potere, ormai scalfito e usurato, di Shahanshah Aryamehr Mohammad Reza Pahlavi. Pure lui, con il suo realismo ingegneristico e poliziesco, come dopo di lui gli ayatollah e i pasdaran, pensava che la forza d’urto e di ricatto del petrolio avrebbe potuto sanare i molti mali del regno che la politica, da sola, non riusciva a risolvere. Pure lui appariva in ritardo sulle esigenze e le aspettative di costituzionalità, di modernità democratica, che gl’indirizzavano i ceti istruiti ed evoluti di una società mediorientale tutt’altro che primitiva. Riteneva di poter mettere le cose a posto con una megalomaniaca e stonata combinazione di elementi disparati, a cui concorrevano, sul piano ideologico, il pugno di ferro di un kemalismo di riporto, poi sul piano d’immagine un classicismo anch’esso di riporto, imperniato in funzione antireligiosa sul mito di Ciro il Grande, infine sul piano della potenza una polizia segreta spietata e un esercito alimentato dai ricavi del petrolio.
La questione del nucleare era già nell’aria. Ma lui mi disse: «Non vogliamo, almeno per ilmomento, l’atomica, vogliamo invece un esercito tanto forte che, per batterlo, sarebbe necessaria l’atomica: quindi imbattibile». Intuivo di trovarmi al cospetto di un uomo di sofisticata e controllata brutalità, un misto d’archeologo astuto e uomo d’affari spregiudicato, che esprimeva i suoi concetti realistici nell’ottimo francese appreso nei collegi svizzeri. Sulla faccia pergamenacea, già offuscata dal male, spiccavano le inconfondibili labbra violette, enigmatiche, quasi tirate da un elastico da una guancia all’altra. Una faccia occidentalizzante più che occidentale. Sarebbe bastato liberarla degli occhiali, metterle un paio di baffi, ridurne l’ampiezza della fronte, per renderla del tutto simile a quella del masnadiero caucasico che era stato suo padre, Reza Khan, il fondatore semianalfabeta della posticcia monarchia.
Altro che Ciro, Dario, Serse. Erede vulnerabile di un usurpatore forestiero privo di scrupoli e di religione, seduto sul Trono del Pavone vagheggiando di congiungere gli oleodotti dell’Iran energetico al glorioso impero di Persepoli, egli ignorava quasi tutto dell’atavica anima islamica e sciita dell’Iran. Conosceva il calcolo infinitesimale, la chimica, la merceologia industriale, le lingue occidentali, ma non capiva i bottegai del bazar musulmano, che a loro volta non capivano il despota orientale che si dava le arie dell’ingegnere petrolifero.
I bazar, che avevo visitato, apparivano abbandonati da quella segreta poesia del baratto, quasi staccata dal valore intrinseco degli oggetti, che in genere gli conferisce una posizione emblematica e arcana al centro dell’universo coranico. I quotidiani locali, intanto, esibivano in prima pagina notizie sempre più allarmanti. Arresti, bombe, sequestri, sparatorie tra gendarmi e terroristi. Moschee affollate e minacciose. Morti, feriti, dispersi: un quadro che sembra ripetersi oggi su altri versanti. Ricordo le ultime parole, forse le più centrate e antevedenti, che lo Scià con un filo di rassegnazione mi disse in quelle sue ultime ore di regno: «Io, non a caso, ho cercato, nei limiti delle mie forze, di legare lo spirito riformatore e modernizzatore della dinastia iranica che rappresento al passato della Persia classica. Se il mio regno dovesse finire in maniera traumatica, a sostituirlo non sarà il comunismo del partito Tudeh, che dà una mano suicida ai terroristi, bensì qualcosa di assai peggio: sarà il più tetro Medioevo islamico».
Poco più d’un mese dopo, in una Teheran imbandierata di stendardi verdi, almomento del rientro dall’esilio il Khomeini creatore della teocrazia sciita avrebbe annunciato alle folle acclamanti: «La legge appartiene al popolo e nessun governo ha il diritto di mantenerlo sotto la sua tutela: ma fino a oggi il nostro popolo è stato trattato così dal governo dello Scià, in violazione d’ogni sacrosanto diritto internazionale. È per questo che noi non riconosciamo più la sua legittimità». Sono passati trent’anni. Oggi, quelle stesse parole delegittimanti rivolte contro la tirannia laicista dello Scià, vengono rivolte almeno dalla metà degli iraniani contro la tirannica teocrazia degli eredi clericali di Khomeini.