De honesta voluptate...- B. Sacchi traduttore di Mastro Martino
Mastro Martino
Tutto ebbe inizio con un committente: Ludovico Trevisan ricco e mondano cardinale che divenne patriarca di Aquileia nel 1439 e ciambellano papale l’anno successivo.
Soprannominato “cardinal Lucullo”, per la sua prodigalità nell’allestir banchetti, il prelato aveva un cuoco personale di nome Mastro Martino da Como che compose per lui un manoscritto: "Liber de arte coquinaria".
Questo ricettario, specchio della gastronomia italiana del tempo, sarebbe rimasto misconosciuto se nel 1474, il letterato e umanista Bartolomeo Sacchi detto "Platina" (direttore della Biblioteca Pontificia sotto Sisto IV ), non lo avesse utilizzato per la sua pubblicazione “De honesta voluptate et valetudine”, manuale del come affrontare serenamente, saggiamente e igienicamente la vita.
Platina tradusse il libro del capocuoco Martino de Rossi in latino classico, per cui l'opera ebbe ampia diffusione anche al di là dei confini italiani. In nemmeno cento anni apparvero oltre trenta edizioni e il libro fu tradotto in francese, inglese e tedesco.
L'opera del Platina, suddivisa in dieci capitoli secondo la tradizione classica, costituisce una preziosissima fonte di notizie sulla vita e la cucina italiana del Quattrocento.
Dai suggerimenti per fare sport, all’importanza della scelta del cuoco; dal come preparare la tavola, all’ora ideale per mangiare, ai migliori metodi di cottura di ciascun alimento. La parte dedicata alle ricette, riprese da Mastro Martino, dava all'arte culinaria europea un impulso decisivo verso la gastronomia moderna. Grazie a Platina e Mastro Martino la cucina diede l'addio al Medioevo, non c'era più bisogno di condire ogni piatto con dovizia di spezie pregiate per dimostrare quanto fosse ricco e distinto il padrone di casa. Bisognava invece cucinare, nel modo più naturale possibile, alimenti di per sé buoni e reperibili ovunque. Nel testo di Martino era inconfondibile anche l'influsso della cucina araba, non solo nelle salse che egli preparava con uvetta, prugne e uva, ma anche nella vasta gamma dei suoi dolci, che andavano dalle mele candite alla torta di mandorle. Benché la nuova cucina italiana accogliesse i cibi provenienti dalla campagna, non lo faceva però in maniera incondizionata. Rifiutava le pappe e i purè di cereali o di verdure, che allora come nel passato erano i cibi dei poveri, mentre alcuni odori oggi molto amati li respingeva come grossolani: "l'aglio e la cipolla vanno bene per i contadini, che li mangiano volentieri e a cui si addicono per la povertà della loro condizione e per il lavoro che fanno".
Bartolomeo Sacchi