22 agosto, 11 di mattina
buongiorno a tutti, sono Don Paolo Sottopietra della Fraternità San Carlo. Ho stamattina il gradito compito di presentarvi gli ospiti che parleranno di un libro scritto da Marina Corradi, giornalista di Avvenire e collaboratrice di tanti altri giornali in Italia, che parla dei preti, dei sacerdoti della Fraternità San Carlo. Dunque alla mia sinistra Giovanni Lindo Ferretti che dall’applauso deduciamo non avere bisogno di grandi presentazioni: ha avuto ed ha un grande ruolo nella musica italiana; io però devo confessare di averlo scoperto molto tardi e attraverso una lettera, un articolo che lui pubblicò qualche mese fa sul “Foglio”, in cui prendeva posizione coraggiosamente in difesa di Ratzinger e delle sue posizioni, se non ricordo male espresse a Ratisbona. Mi trovavo in quel momento con un’ammirazione sconfinata, per cui ho avuto una settimana dedicata a Giovanni Lindo Ferretti, poi lo abbiamo potuto leggere; penso che molti di voi avranno letto il suo libro “Reduce”, che esprime anche un po’ la ragione per cui ci ha incuriosito, per cui ha incuriosito molti di noi della Fraternità San Carlo - e che oggi spiega anche l’invito fatto a lui di presentare un libro qui oggi che parla di noi - e cioè questo suo ritorno alla casa che lo ha visto nascere in senso fisico, ma anche in senso metaforico, in senso profondo, come riscoperta della forza, della potenza delle origini e delle sue radici. Quindi oggi converseremo con lui. Alla mia destra Luigi Amicone, Direttore di Tempi che tutti conosciamo e qui al centro don Massimo Camisasca, fondatore e superiore della Fraternità San Carlo. Prima di dare la parola ai relatori devo dire una cosa e spiegare perché oggi Marina Corradi non è presente; si scusa, non ha potuto partecipare per una indisposizione che ha avuto nei giorni scorsi per cui anche noi l’abbiamo consigliata di riposarsi e di rimanere a Milano. Avrebbe voluto esser qui, lo aveva desiderato molto e speriamo di poterle rendere omaggio a distanza.
Dunque volevo cominciare con Giovanni Lindo Ferretti, chiedendogli semplicemente che cosa è stata per lui la lettura di questo libro, l’incontro con la realtà descritta in questo libro e la lettura di questo libro.
GIOVANNI LINDO FERRETTI:
è stata una piacevole sorpresa, sorpresa da molti punti di vista. Lo scorso anno per la prima volta, per constatazione, un pensiero si era affacciato alla mente: “Non conosco neanche più un prete, nel mio orizzonte non esistono preti” e poi in questo anno, nell’anno di grazia 2007, da gennaio a oggi è stato tutto un fiorire di preti intorno a me in maniera più che sorprendente. Per cui, quando mi è stato raccontato di questo libro che stava per uscire, mi è stato chiesto di presentarlo, ho detto: “In qualche modo mi tocca”; sto pensando a questa cosa da un po’ di tempo e ho preferito ieri scrivere poche riflessioni per esser preciso in questo mio raccontare. Poi posso anche parlare a braccio, ma l’ho fatto proprio per la necessità di essere preciso nell’uso delle parole; se mi concedete dieci minuti ve lo leggo. Di preti non mi intendo, che dire, eppure hanno chiesto a me di presentare questo libro sulla bellezza; il valore del libro si fa presto a dire: il libro si fa divorar, si legge d’un fiato. Resta il fatto che hanno chiesto a me di presentarlo e in un momento ben preciso della mia vita; ma andiamo per ordine. Nella mia infanzia fino all’età scolare c’erano il priore del Cerreto e l’arciprete di Collagna: rispetto e obbedienza erano loro dovuti, li vedevo in chiesa nella solennità della liturgia festiva, presiedevano matrimoni e funerali, si ricorreva a loro in caso di controversie gravose, se c’era una disgrazia arrivavano subito; nella vita dei bimbi piccoli anche l’educazione religiosa era prettamente familiare, le preghiere, l’esame di coscienza , il perdono, la misericordia, la compassione si imparavano giorno per giorno attorno al tavolo di cucina o prima di dormire la sera, cibo per il corpo e nutrimento dell’anima. Se il prete entrava in casa i bimbi si alzavano e salutavano rispettosi: “Sia lodato Gesù Cristo” e il prete rispondeva incrociando gli sguardi: “Sempre sia lodato”. Se interpellati i bimbi dovevano rispondere, poi uscivano perchè in genere non erano cose per loro; con l’inizio della scuola tutto cambiò: si decise che lo studio doveva essere una cosa seria, non la pluriclasse di un borgo montano e mi ritrovai in collegio sulle colline di Reggio Emilia, prima con le suore di Maria Ausiliatrice, poi tra una lunga serie di preti: Don Gianfranco Maniani, Don Giulio Rossi, Don Giorgio, Don Creardo, Don Luciano sono stati i miei educatori e per quanto nel tempo io abbia dato loro buoni motivi per non essere soddisfatti di me, io non ho mai potuto lamentarmi nè tanto meno biasimarli. Nessuno di loro mi ha mai mancato di rispetto nella carne e nello spirito, di fronte alle famiglie, alla società, a Dio hanno fatto tutto il possibile secondo le loro capacità, le personalità, l’indole perchè io come gli altri bimbi crescessimo sani, forti nel corpo e nell’anima. Il debito con loro è cresciuto nel tempo e cresce ancora oggi se confronto il livello della mia educazione con quello che sarebbe arrivato poi nelle mani di sociologi, psicologi e psicoterapeuti delle creatività. Cresciuto ai margini della famiglia salesiana che si prendeva cura dei poveri degli orfani, dei giovani lavoratori, ho imparato a non disprezzare la ricchezza e tanto meno a invidiarla, ho imparato l’amore per la vita e il rispetto dovuto all’uomo, ogni uomo, al suo lavoro, al suo operare. Il liceo ha segnato la frattura della mia vita: era il 1968, non ho mai più incontrato un prete nella mia vita di giovane uomo, poi di adulto; colpa mia: non frequentavo le parrocchie; colpa loro: sono diventati indistinguibili e indistinti tra la folla. Poi col tempo nella mia vita è successo qualche cosa, io l’ho chiamato tornare a casa; è stata l’insoddisfazione montante per tutto ciò che avevo messo in atto come mia libera volontà; scoprire che molto, troppo di ciò che credevo mio, mio non era, ma piuttosto si era impossessato di me è stato doloroso. Ciò che mi era apparso profondo non era che una increspatura della superficie, ciò che rivendicavo come radicale non era che una fluoerescenza momentanea e ciò che indubbiamente era nuovo non avrebbe retto una stagione senza diventare impresentabile. Tornare a casa significava tornare a una pienezza di vita conosciuta e ricominciare. Tornare a casa attraverso un lungo viaggio nel tempo e nello spazio significava tornare in chiesa, una cosa semplice e difficile. Per mia fortuna, nelle chiese che frequentavo e frequento c’è sempre un altare alla Madonna; se non posso, non riesco a proseguire, mi fermo lì. Tornare a casa significava tornare alla preghiera quotidiana. Casa e preghiera sono un connubio inestricabile, come casa e cucina, residui di memoria, folgorazioni, doni, qualche sorpresa. Tutte le preghiere che recito giornalmente le ho imparate da bambino e non le ho dimenticate, sono riaffiorate lentamente: Pater, Ave, Gloria, Requiem, il Credo, l’Angelo di Dio, il Santo Rosario. Il De profundis l’ho imparato perchè mia mamma, invecchiando, ha cominciato a recitarlo più volte al giorno, felice di averlo ricordato, lei che dimentica tutto, così come lo aveva imparato da bambina; è una preghiera importante nelle nostre giornate. L’unica preghiera nuova l’ho trovata sul compendio di catechismo ed è la preghiera dell’incendio nella tradizione copta, l’ho fatta mia. Con la recita dell’Atto di dolore è arrivata, prepotente, la necessità di un prete. Serve un prete per confessarsi e non necessario che sia intelligente, colto e magari anche simpatico, ma deve essere consacrato. Così è per la Santa Messa, e qui stendo un velo pietoso: troppa è la differenza tra ciò che ho lasciato e ciò che ho ritrovato. La Santa Messa domenicale può essere adesso un’ora di sofferenza, una discesa nel degrado liturgico, che lascia sgomenti di fronte a Dio e alla tradizione cattolica di cui siamo figli. Ma proprio nel momento in cui ho avuto chiaro, per constatazione, che non c’erano più preti cattolici nel mio orizzonte, tutt’al più pastori protestanti di ottime volontà e grandi impegni, è successo qualcosa di incredibile: per motivi tra loro diversi e in modi anche fantasiosi, c’è stato un fiorire di preti tutto intorno a me. Mi sono ben presenti e cari, e prego Dio che li protegga, li aiuti perché li ha chiamati a sé per essere veicolo del suo amore per noi, della nostra salvezza. Non posso dirvi, sarebbe troppo lungo, dei preti che ho conosciuto in questo anno di grazia 2007. Ma di due voglio accennarvi: il più vecchio e il più giovane. Don Alberto ha compiuto 96 anni e vive dal ‘45 nella stessa parrocchia di media valle in un piccolo borgo dell’Appennino. Dal suo sperduto altare sui monti ha offerto a Dio il sacrificio perfetto, è corso dove c’era bisogno di lui senza risparmiarsi e senza risparmiare, ma ha passato ogni ora utile a rimettere i peccati presentandoli alla Misericordia di Dio. Lo fa ancora oggi in una povera chiesa alle 17.00 in inverno e alle 18.00 in estate: suona la campanella ed entra dalle sacrestia in cui si è ritirato mezz’ora prima in preparazione. La prima volta che l’ho salutato, alla fine della Santa Messa, mi ha ringraziato di essere lì e con due occhi puri e penetranti e un gran sorriso mi ha detto: “Sa, io sono un prete di una volta, di quelli che celebrano ogni giorno anche se in chiesa non c’è nessuno e ormai, tranne la domenica, non c’è quasi mai nessuno; ma non mi sento solo, né inutile”. Nessun dubbio da parte mia che sia solo, né tanto meno inutile. Dicono che sia troppo vecchio e che per questo ogni tanto si interrompa nel celebrare, ma basta guardarlo: se si interrompe non è perché è vecchio, ma perché è vicino a Dio. Don Jonah ha compiuto 29 anni ed è sacerdote da poco più di un anno. Mi onora di una amicizia appena sbocciata, è lui che mi ha cercato. Per età potrebbe essermi figlio, ma in quanto sacerdote mi è padre; e “padre” lo ha giustamente chiamato mia madre, chiedendogli di benedirla, felice di averlo ospite nella nostra casa. Don Jonah che per età, nascita, esperienza di vita, studi e conoscenze non potrebbe essere più lontano, storicamente e geograficamente di un altro mondo, rispetto a don Alberto, è invece a lui molto, molto vicino. Se la vita è un mistero per tutti, nei sacerdoti questo mistero è vibrante e per questo oggi è il sarcasmo, la diffamazione; il modo più facile per attaccarli è attaccare la vita intera. Nel breve racconto della sua storia, che don Jonah fa a Marina Corradi per il libro che qui presentiamo, a proposito del suo incontro con la Fraternità Missionaria di San Carlo, avvenuto in Canada, dice queste parole: “Un momento sorprendente per me era assistere alla Messa per Angeli di don Nicola, che celebrava anche quando in chiesa non c’era nessuno. Non mi dimenticherò mai l’intensità e l’affetto durante l’elevazione in quella chiesa deserta. E’ che don Jonah, come don Nicola, come tutti i giovani sacerdoti di cui si racconta in questo libro, o don Massimo, don Carlo, don Pietro, don Mauro, don Alberto e quanti altri lo sa bene Dio, sono innanzitutto uomini, uomini che hanno risposto a una chiamata, una chiamata antica, sempre rinnovata e inesauribile. Quando nostro padre Abramo lasciò Ur dei Caldei e si mise in viaggio, rispondendo alla chiamata dell’Altissimo, già Melkisedek era sacerdote di Dio. Nel suo ordine ininterrotto sono situate le quindici storie di cui racconta Marina Corradi. Storie di oggi, del nostro tempo, storie che sorprendono. Ognuna di loro è la cosa più nuova sulla terra e ognuna di loro è la risposta più coinvolgente e più antica. Solo chi dura nel tempo, oltre il tempo può rispondere, può rispondere all’esigenza di infinito che pervade l’uomo e lo fa vibrare. Possano questi giovani sacerdoti e i seminaristi che li hanno seguiti nutrire la nostra speranza e la nostra fede, rendere gloria a Dio e condurci alla verità che come sta scritto ovunque in questo incontro “è il destino per il quale siamo stati fatti”.
PAOLO SOTTOPIETRA:
grazie. A Giovanni Lindo Ferretti: voglio tornare al sapore di antico che abbiamo gustato nel tuo intervento. Il gusto di una società, il gusto riassaporato di una società dove il sacerdote era ancora la forma del suo popolo, l’educatore del suo popolo, colui che seminava nei cuori le cose vere, le cose fondamentali. Ma la tua vita è la testimonianza anche di un ritorno possibile a questo sapore dell’antico, a questo sapore del vero, come diceva Amicone, a questo sapore del sacro. Volevo chiederti: noi abbiamo scritto nelle nostre Costituzioni che vogliamo metterci al servizio – in maniera privilegiata – della seconda evangelizzazione, che è un modo per dire, per servire questo ritorno dell’uomo a queste cose sacre, vere, onorabili e che sostengono la vita. Come poterlo servire questo ritorno, dal tuo punto di vista? Come noi possiamo servire questo ritorno?
GIOVANNI LINDO FERRETTI:
il fatto stesso della vostra esistenza, il fatto che io possa, abbia potuto leggere quindici storie sorprendenti, l’essere legati alla propria storia, l’essere legati alla propria tradizione perché si riscopre nella tradizione un valore fondante, si riscopre il proprio destino. Le strade per tornare a casa sono infinite, tante quanti sono coloro che vogliono mettersi in cammino. Non c’è dubbio che ciò che è sedimentato nella prima infanzia ha un valore fortissimo: le preghiere insegnate dai genitori, le preghiere insegnate dai nonni quando si è bambini, anche se non vengono comprese in quel momento hanno una potenza dirompente perché crescono, crescono insieme alla carne, diventa genetica in qualche modo. Ma noi viviamo nell’anno di grazia 2007, io non ho nessuna voglia di tornare all’anno 1953, mi auguro che il Signore mi conceda altri anni per progredire nella mia vecchiaia, dimenticando non tutto quello che ci viene imposto come moderno, contemporaneo; vale la pena del tempo perso solo per apprenderne il funzionamento (la maggior parte è paccottiglia, sono stupidaggini); però questo è il nostro tempo, è il tempo con cui dobbiamo misurarci. L’essere legati alla tradizione significa soprattutto che noi non siamo la prima cosa comparsa sulla terra, c’è molto altro prima di noi e avere memoria, essere legati a una tradizione, significa poter agevolmente tornare molto indietro. La nostra memoria arriva ad Ur dei Caldei e non hai bisogno di scoprire su un magazine archeologico le civiltà dell’Eufrate o del Nilo: tu lo sai, l’hai sempre saputo, te l’ha insegnato tua nonna che non aveva neanche fatto la quinta elementare, però anche a lei era familiare Ur dei Caldei e sapeva cose inimmaginabili che la maggior parte dei nostri bimbi non sa più, perché sa tante cose…
MASSIMO CAMISASCA:
dei nostri professori…
GIOVANNI LINDO FERRETTI:
quelli non volevo neanche considerarli, mi dispiace per i bimbi, in tutta onestà, non per i professori! Quindi l’essere partecipi di una tradizione significa essere forti, essere meno abbindolabili. Noi conosciamo tante cose. E’ difficile per un ragazzo che cresce, soggetto a naturali pulsioni ormonali, in questa società mantenere una purezza di spirito e di corpo, è quasi impossibile. A me per esempio è stato impossibile: io però ho memoria di qualcosa di altro e ritrovarmelo così, raccontato in maniera naturale da quindici giovani di oggi che potrebbero essere miei figli, mi sorprende in maniera incredibile, per tornare alla domanda, alla prima domanda che tu hai fatto ad Amicone. Io che sono il vecchio “panchettone”, sono cresciuto coltivando il mio cattivo gusto, che mi permetteva di urlare “Living Mosca, Living Budapest, Living Varsavia!” perché sono nato a Reggio Emilia, la più filosovietica delle province dell’impero americano, sono ogni giorno più stupito; ormai non sono più addolorato, sono molto innervosito e basta. Ad esempio, da tutto ciò che è il problema della pedofilia o dei preti, che in realtà è il problema fondamentale della vita, che è il problema dell’amore, del matrimonio, della verginità. Noi viviamo in un mondo che è un sogno pornografico: basta salire in macchina e andare in una qualsiasi città ad incontrare una qualsiasi persona di sera e tutte le nostre città sono una esposizione a metà tra la schiavitù e un bordello più o meno legalizzato. Sarebbe per me impossibile portare mia madre – che è un’anziana signora - senza coprirgli gli occhi, una sera sulla Via Emilia tra Reggio Emilia e Parma perché è imposta la visione, la presenza di un mondo che non so definire. Ma allora noi viviamo in un mondo che è un mondo pornografico, veniamo costretti continuamente ad una pressione culturale, letteraria, cinematografica ed educativa che invita qualsiasi persona, che invita, cioè che persuade, qualsiasi persona ad aprire ogni poro della propria pelle e nello stesso tempo c’è un moralismo di ritorno che ha dell’incredibile, assolutamente dell’incredibile! Cioè ti viene presentata una cosa, che ti viene negata in una confusione in cui non c’è più la ragione del problema, figuriamoci se c’è una soluzione del problema. Non si capisce dov’è il problema: non è quello che volete, non è quello che c’è; però che un giovane uomo scelga, nella sua complessità di fronte alla propria coscienza, di fronte alla propria storia, la verginità come propria scelta e che in questa scelta trovi la sua realizzazione, questo è scandaloso, non è plausibile; ancora è plausibile, in questa specie di razzismo alla rovescia che ci ha pervaso ormai tutti, se c’è qualcosa di esotico, cioè: se è un monaco buddista che fa della verginità la sua scelta di vita, questo è attraente, ma perché è esotico, perché è razzismo; è come quando qualche decennio fa non si potevano vedere le tette sui giornali, però se le tette erano di una nera si potevano vedere perché era estetica, non era carne, non era umanità. Ecco, succede la stessa cosa: quello che non è accettabile è che ci sia un giovane, che tu puoi vedere, che è nato a Cinisello Balsamo o a Reggio Emilia o a Canicattì, che decide in tutta onestà e guardandoti negli occhi dice “Perché sacerdote?” “Io ho fatto questa scelta e di questa scelta io sono felice”. Questo non è possibile, loro sono convinti che ciò succeda perché il bimbo non ha avuto diritto ad una educazione sessuale, perché se avesse avuto… Hanno un’idea così miserevole di se stessi che non ne può uscire un giudizio forte, sarcastico, su una scelta diversa, non è contemplabile. Il vero problema è questo: il vero problema è che ci sia qualcuno che crede che la vita sia un dono, sia un mistero, che sia comunque una gioia vivere, che sia comunque possibile in qualsiasi situazione è data. Mia nonna – tanto per rimanere legati alla tradizione, perché si torna a casa – è vissuta tutta la sua vita in tempo di guerra: vecchia, quando mi raccontava di sé, mi raccontava: “Io nella mia vita non ho visto altro che partire gli uomini di casa per andare alla guerra e non ho fatto altro che pregare Dio tutti i giorni perché ce li riportasse a casa non troppo malmessi, non senza una gamba”, meglio senza un braccio che senza una gamba perché noi stavamo in montagna e, senza un braccio si riesce, senza una gamba è un casino perché non c’erano le ruote allora, la vita era ancora dura. E per tutta la vita non ha fatto altro che vedere guerre. “Poi l’ultima guerra mi è arrivata in casa”: ha avuto prima i fascisti, poi i nazisti, poi le stragi: tutto quanto. Eppure quello è stato il tempo della sua vita ed è riuscita a crescere, a sposarsi, ad allevare figli, persino ad allevare i nipoti e ha avuto giorni di gioia e di meraviglia di cui ringraziare Dio e giorni di dolore atroce per raccomandarsi a Lui, ma era il tempo della sua vita. E noi, che abbiamo un tempo fortunatissimo, inimmaginabile per tutti coloro che ci hanno preceduto dalla venuta sulla terra di nostro Signore Gesù Cristo, cioè negli ultimi 2000 anni, non c’è stata nessuna generazione fortunata come la nostra, non ce ne è stata neanche una stupida come la nostra.