Retromarcia

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poeta76
00sabato 18 marzo 2006 13:23
(Dicembre 2005)
Mi è giunta all'orecchio una notizia, pare che la corte di cassazione abbia sancito, (se il termine è improprio, l'avvocatessa mi corregerà) che dire "sporco negro!" Non è più un'offesa. A questo punto mi chiedo cosa s'intende per "offesa".

(Marzo 2006)
Un improvviso tamporale di giustizia si è abbattuto sulla corte di cassazione.
Un uomo anziano (mi pare di oltre 60 anni) è stato giudicato colpevole dalla suddetta corte, per avere apostrofato una bimba di colore di 6 anni dicendole "vattene via di qua sporca negra!)

Riporto un aricolo.

ROMA (Reuters) - Dire ad una persona "sporco negro" è reato in Italia, dopo che la Cassazione ha confermato una condanna per ingiuria aggravata ad un uomo che aveva offeso una bambina nera di sei anni.

La sentenza dell'alta Corte restituisce alla parola un contenuto razzista, dopo che pochi giorni fa aveva confermato il proscioglimento di una donna di Firenze dal reato di ingiurie per aver chiamato "negro di m..." un suo collega che era arrivato tardi al lavoro.

"Il riferimento gratuito con questa parola al pigmento dell'offeso assume significato intrinsecamente discriminatorio", si legge nel provvedimento . "Negli Stati Uniti la sola denominazione di qualcuno quale negro costituisce offesa alla persona".

I giudici hanno così respinto il ricorso di un uomo condannato il 15 marzo 2005 dalla Corte d'appello di Trieste a 1200 euro di multa e a un risarcimento danni di 3500 per ingiuria aggravata dopo aver apostrofato una bambina con l'espressione "vai via sporca negra".

"Sul piano linguistico la parola negro, traslato di nero, non definisce semplicemente il colore della persona, a differenza di moro. Difatti è stata assunta nella recente epoca coloniale, nelle lingue neolatine e anglosassoni, per la designazione antonomastica dell'indigeno africano quale appartenente a una razza inferiore, quando non destinato con questa falsa giustificazione fatta persino risalire alla Bibbia, alla schiavitù, perdurata in America fino oltre la metà dell'800", scrivono i giudici.

Complimenti a questi giudici rinsaviti che fanno riconquistare un po' di fiducia nella "legge uguale per tutti."

N.B. (della serie "forse non tutti sanno che...")
Lo sapevate che andando in retromarcia il contachilomentri dell'auto non conteggia? Peccato però, che consumi molto più carburante. [SM=g27828]

Meditate gente...meditate



blueshot
00lunedì 20 marzo 2006 09:15
Per meditare sul significato di "negro" e "nero":

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È il caso dei redattori del già menzionato Vademecum di giornalismo, in cui si osserva che «fino a qualche tempo fa la parola “negro” non aveva nessuna connotazione dispregiativa; poi, per influenza dell’inglese […] e del francese (che usa “noir” e non “nègre”) anche in Italia c’è chi sostiene che “negro” non sia un’espressione simpatica e che debba essere sostituito da “nero” (nonostante che “nero” sia servito e serva ancora a indicare l’estremista di destra); in attesa che l’uso risolva il problema, si potrebbe suggerire di usare “negro” come sostantivo e “nero” come aggettivo» (abbiamo ricavato la citazione da Palermo, I manuali redazionali.

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E' possibile un linguaggio "politicamente corretto"?

(adattato da Federico Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti, Milano, Garzanti, 2004, pp. 119 ss.)

È possibile un linguaggio “politicamente corretto”? Per tentare di rispondere a questa domanda, potremmo iniziare col chiederci che cosa sia, e che cosa sia stato, ciò che convenzionalmente si intende con l’etichetta di politicamente corretto. Nata, a quanto pare, negli ambienti della sinistra comunista statunitense per indicare, negli anni Trenta del secolo scorso, l’adesione indiscussa alla linea del partito, negli anni Sessanta assimilata “da talune frange della New Left”, l’espressione politically correct (in italiano appunto ‘politicamente corretto’) ha acquistato, in seguito, un senso negativo o quantomeno ironico “con riferimento a un eccesso di ortodossia partitica”, ed “è stata poi adottata dalla destra [statunitense] per criticare ogni posizione percepita come radicale e libertaria”, anche in risposta all’esplosione del cosiddetto ‘movimento’ Politically Correct verso la fine degli anni Ottanta.

Questo ‘movimento’ emerse in alcune università americane all’inizio del 1988, come conseguenza di alcuni episodi di ‘razzismo’ che, con preoccupante frequenza, si stavano verificando fra gli studenti. Non si trattava di azioni fisiche, ma prevalentemente di atti verbali: insulti, battute sarcastiche, uso denigratorio di alcune espressioni, ecc. La risposta degli atenei - primo fra tutti quello di Ann Arbor nel Michigan - fu quella di preparare ed “imporre” degli speech codes, ovvero dei codici di condotta verbale, nei quali si consigliava di non usare certi epiteti ritenuti offensivi nei confronti delle minoranze ‘etniche’, delle donne, dei non eterosessuali, dei portatori di handicap. Chi non avesse rispettato questi codici sarebbe potuto incorrere in una serie di richiami ufficiali che, se ripetuti, avrebbero potuto influire negativamente sulla futura carriera accademica del ‘reo’.

Questo tentativo di ‘politica linguistica’, nato per contrastare una violenza verbale, spesso deliberatamente razzista, allarmante e piuttosto diffusa, si trasformò rapidamente in una sorta di caccia alle streghe: un misto di censura, talvolta talmente esasperata da apparire ridicola (al punto che, ad esempio, si arrivò a bollare la parola huMAN come antifemminista, o a vietare l’uso del termine BLACKboard, ‘lavagna’, perché ritenuta offensiva nei confronti dei ‘neri’, la cui intellighenzia - si è detto - voleva la messa al bando di Black a favore di African-American) e di aggressive, grossolane rivendicazioni delle ‘minoranze’ (come quella, ad esempio, di voler riscrivere la storia delle imprese di Alessandro Magno spiegando i suoi successi attraverso l’analisi della sua presunta omosessualità).

Insomma, in breve tutto sembrò volgersi in farsa, fornendo agli avversari del PC alcuni formidabili argomenti, quali l’incostituzionalità delle prescrizioni linguistiche (perché il Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti garantirebbe l’assoluta libertà di espressione), la loro inutilità (secondo commenti del tipo “non è imponendo un paio di eufemismi che si risolve il problema del razzismo”), nonché la loro arroganza e stupidità. Nel giro di pochi mesi, l’etichetta Politically Correct assunse un significato ironico, quasi un insulto per chi, ‘a sinistra’, se la sentiva indirizzare.

In Italia, il dibattito è giunto proprio in questa sua fase deteriore. Cosa che ha ridimensionato, quando non ridicolizzato, i contenuti che originariamente si celavano dietro quell’etichetta (un’etichetta che, per molti commentatori, ancora oggi rappresenta soltanto l’ennesima boutade di certa sinistra schizofrenica, null’altro che un tentativo - peraltro fallito, dicono i detrattori - di mettere un bavaglio alla lingua ed alle abitudini linguistiche dei parlanti). E che spesso ha fatto guardare con troppa superficialità al perché di alcune proposte linguistiche: nel caso di negro, a sinonimi apparentemente meno offensivi quali gli stessi nero e di colore (ma sui giornali si può trovare anche colored, soprattutto nella cronaca sportiva) ed il ‘nuovo’ afro-americano.

Frutto di questa ‘superficialità’ non poche critiche e scetticismi. Come quelli di chi ha fatto notare, provocatoriamente, che non si cambia la realtà sostituendo o censurando le parole. I negri non saranno più felici, meno discriminati - è stato detto - se li si chiama neri, o persone di colore, o anche afro-americani. E poi - si è aggiunto - in italiano l’uso di negro è del tutto giustificato dal punto di vista etimologico. Vero, verissimo. Ma entrambe le osservazioni sono fuorvianti. O almeno riduttive. Perché negro - la sensazione è questa - appartiene ormai alla sfera del vituperio. Se ci soffermiamoci sui giornali quotidiani, che non di rado nella cronaca citano insulti razzisti, negro appare in espressioni che tendono a diventare fisse (“sporca negra”, “negri di merda”, “negri puzzolenti”, “brutto negro”) e, quindi, a rinforzare, del termine, il significato negativo. Che ha inoltre assunto, in anni recenti, un certo evidente ampliamento, relativo non soltanto al colore della pelle ma all’alterità in generale: negro spesso vale ‘maghrebino’, ‘musulmano’ o immigrato tout court. O anche, per una esecrabile ma consolidata proprietà transitiva, ‘delinquente’ (“noi non siamo ladri, non siamo negri, ma siamo lavoratori onesti”, mi è capitato di leggere tempo fa su un volantino distribuito a Roma da immigrati indiani). Senza contare la diffusione di binomi quali “negri e albanesi”, “negri e marocchini”, “negri e terroni”, “negri e zingari”, in cui negro è associato ad altre tipologie di diversi rifiutati, ad altre parole negativamente marcate: in modo implicito, la polarizzazione negativa della parola risulta rinforzata, ed esplicitamente la complessa visione della diversità viene ridotta a un solo binomio lessicale, come se gli ‘altri’ fossero tutti uguali. Secondo la tendenza a percepire e rappresentare il mondo attraverso una cesura: parole marcate e parole non marcate, normalità - ovvero assenza di un segno distintivo in rapporto ad una ‘norma’ socialmente codificata - e anormalità, possesso di un segno distintivo (non soltanto il colore, ma un qualsiasi tratto fisico o culturale considerato ‘anomalo’, ‘altro’). Negro può diventare così parola onnicomprensiva, e l’opposizione noi/i negri può valere noi/gli altri.

Se negro è - spesso, nella prassi - utilizzato e avvertito ormai come insulto o come termine fortemente marcato in senso negativo, escludente, non sarà la stessa cosa indirizzarlo oppure no a qualcuno. Se negro è riconosciuto, innanzitutto dai ‘negri’ stessi, come un termine che offende, noi rischieremo di essere ‘offensivi’ se e quando lo utilizzeremo parlando a o di una persona. Quindi, obbligarsi a sostituire negro, magari con nero, anche se sarebbe ‘etimologicamente’ logico e quindi ‘naturale’ dirlo, significa accertare ed accettare che nel linguaggio, e dunque nella realtà, qualcosa non funziona. E che un termine, proprio perché così ‘forte’ e fortemente connotato e dibattuto, risulta quasi faticoso a dirsi: una fatica “che caratterizza […] tutte le situazioni, salvo quelle in cui si è tranquillamente razzisti. In quel caso funziona, perché non c’è scelta: è la storia, razzista, che ha scelto per noi”.

L’opposizione negro/nero non è dunque soltanto un mero esercizio di acrobazia linguistica. È anche la manifestazione tangibile di una opposizione tra due modi di leggere la storia ed, eventualmente, di criticarla. Certo, chi usa negro, oggi (soprattutto fra le generazioni pre-politicamente corretto) non ha sempre una intenzione offensiva, al contrario, e d’altronde l’uso di nero non mette al riparo da attitudini più o meno razziste o perlomeno ambigue. Tuttavia, si ha l’impressione che l’impiego di nero risponda ad una scelta più consapevole - seppur avvertita spesso come ‘innaturale’ - da parte del parlante, e nel contempo imponga una riflessione sul come catalogare gli ‘altri’ e sul perché (e, soprattutto, se sia così giusto farlo).

Già - incalzano i detrattori - ma il ricorso ad innaturali eufemismi come nero non fa che celare, ipocritamente, la realtà! Anche qui, non è difficile replicare e sostenere provocatoriamente, di rimbalzo, che chi accusa di usare un eufemismo in realtà accusa se stesso, implicitamente e paradossalmente, di ‘razzismo’. Se si tralascia la definizione tecnica di eufemismo, e ci si sofferma sulla sua accezione vulgata, si pensa all’eufemismo come a qualcosa che serve per nascondere, allontanare una realtà che non ci piace, che ha delle caratteristiche oggettivamente negative. Se usiamo passare a miglior vita invece di morire, è perché associamo a quest’ultimo verbo qualcosa di spiacevole, qualcosa di ‘brutto’ che la morte, oggettivamente, possiede. E quindi, per rendere più accettabile una realtà che non ci piace, ci serviamo di nomi che attenuino, che celino. Ma quando diciamo nero al posto di negro non intendiamo servirci del primo termine per nascondere le qualità negative dell’altro. Non vogliamo mascherare la realtà. Usiamo nero non per celare ciò che il ‘nero’ effettivamente è - perché non crediamo che abbia, oggettivamente, per il suo colore della pelle, delle caratteristiche negative - ma per sottolineare il fatto che il termine negro possiede, non per caratteristiche ontologiche della persona che designa, ma per precise ragioni storiche, che si sono necessariamente anche riflesse sulla lingua e sulla cultura italiana, un senso, un significato negativo che nero non ha ancora assunto.

Nero meglio di negro (e anche di di colore, questo sì un eufemismo ipocrita che nasconde il riferimenti al colore ‘nero’ come se esso fosse una inconfessabile stigmate per chi ne è ‘affetto’)? Certo, sarebbe più opportuno non usare nessuno dei due termini: anche riconoscendo a nero una supposta ‘correttezza’ semantica rispetto ad altri termini (ed a chi ne fa uso una supposta consapevolezza anti-razzista), questa non basta comunque, da sola, a garantire una agognata neutralità di giudizio. Perché finché il colore della pelle (o l’appartenenza ad una presunta ‘razza’) sarà ritenuto decisivo per definire, classificare le persone e sancire i rapporti sociali, non esisteranno in fondo termini veramente neutri.

Tuttavia, non potendo eliminare tout court certe categorie lessicali dal nostro vocabolario (né volendolo fare: le prescrizioni e le censure linguistiche totali dettate ‘dall’alto’ non sono mai auspicabili, né tanto meno realizzabili, senza dimenticare poi - come appena accennato - che la valenza delle parole spesso dipende dal contesto, dalle situazioni), già sarebbe un risultato non disprezzabile porsi il problema di usarle cum grano salis. Ovvero di evitare di ricorrervi quando sono soltanto accessorie e non sono indispensabili per l’intellegibilità del messaggio che si vuole comunicare. Facciamo un esempio, tanto banale da sembrare vero. “Due rapinatori di colore sono stati arrestati dalla polizia dopo un lungo inseguimento nei pressi di…” è una frase che si potrebbe trovare con facilità in un qualsiasi articolo di cronaca su un qualsiasi giornale. Ebbene, l’omissione dello specificante “di colore” non altererebbe i tratti salienti della notizia, mentre il suo inserimento non fa altro che ridimensionare, agli occhi del lettore, il focus reale dell’enunciato (“sono stati arrestati”) a vantaggio di un focus, potremmo dire, ‘psicologico’. Se lo specificante avesse soltanto un valore informativo (dunque suppostamene ‘neutro’), per analogia, se i due rapinatori fossero stati ‘non di colore’, si sarebbe dovuta leggere una frase del tipo “due rapinatori bianchi sono stati arrestati dalla polizia dopo un lungo inseguimento nei pressi di…”. Il fatto che non troveremmo facilmente un enunciato del genere non fa che confermare la forte connotazione di quel “di colore”. E quindi, nonostante tutto, la sua non neutralità.

Altra buona norma sarebbe, se proprio dovessimo - ai fini di rendere più comprensibile l’informazione - specificare attributi caratterizzanti, usare gli etnonimi o gli aggettivi di nazionalità (senegalese, nigeriano, marocchino, se davvero si parla di una persona di cittadinanza marocchina e non si usa il termine come sinonimo, connotato ormai negativamente, di ‘immigrato’, ecc.), o i nomi che gli ‘altri’ scelgono per sé e che eventualmente vorrebbero veder utilizzare: è il caso [...] di zingaro vs. l’ambiguo nomade. Sarebbero comunque da evitare parole che sappiamo essere offensive: a parte negro, ad esempio, l’orrendo vu compra’, una neoformazione [...] tutt’altro che scomparsa (anzi, vitalissima se adoperata in senso figurato) e doppiamente offensiva, perché sprezzante tanto nei confronti di un mestiere, quello del venditore ambulante, quanto di una supposta incompetenza linguistica (la cui mis en rélief - ormai lo sappiamo - è una costante nei processi di costruzione della diversità).

Discorso a parte merita extracomunitario. Nato all’inizio degli anni Ottanta come aggettivo per indicare genericamente un paese “che non appartiene all'Unione europea” ed in seguito, sostantivato, “chi proviene da tali paesi”, con riferimento però soprattutto “agli immigrati provenienti da paesi economicamente arretrati” (De Mauro 2001), nell’ultimo decennio è entrato nell’uso comune con il significato di ‘immigrato’. Si tratta, come da più parti affermato, di un termine improprio, perché “in un’ottica ‘comunitariocentrica’, accomuna tutti i cittadini non comunitari, che pure presentano numerose differenze di vario ordine: economico, sociale, culturale, geografico, ecc. […]”. A rendere il termine sconveniente è anche la scelta di utilizzare il prefisso ‘extra-’, che rinvia a qualcosa di estraneo, anomalo, straordinario (De Mauro 2001), nonché, oggi, l’esistenza della stessa Unione Europea (invece della ‘vecchia’ Comunità Economica Europea), nei cui documenti, non a caso, il termine è stato infatti sostituito da “cittadino non appartenente all’Unione Europea”. Il fatto che extracomunitario venga ormai considerato burocraticamente improprio non significa, necessariamente, che esso sia da ritenere offensivo tout court. Tuttavia il suo uso pone interrogativi e impone riflessioni. Innanzitutto, ammessa la discutibilità di extracomunitario, come dovremmo chiamare i cittadini ‘non appartenenti’ all’Unione Europea - che, ed è un’altra questione terminologica, non significa Europa - e quindi ‘i non italiani’ (intanto sarebbe da discutere, ma non è questo il luogo, ciò che intendiamo per ‘cittadino dell’Unione Europea’ o ‘cittadino italiano’: chi è nato in queste due entità politiche, chi ne possiede la cittadinanza e quindi il passaporto, chi vi risiede da almeno un certo lasso di tempo?): extracomunitari, stranieri, immigrati, migranti?

Non è solo un problema linguistico. Ognuno di questi termini può avere un diverso valore non solo sul piano sociale (benché nessuno di essi possieda un significato espressamente negativo), ma anche su quello politico e giuridico. Già verso la fine degli anni Ottanta il Consiglio d’Europa si era interrogato, attraverso alcuni seminari sull’educazione interculturale e sull’insegnamento “alle minoranze linguistiche e culturali”, su quali designazioni usare in riferimento agli ‘immigrati’ che erano arrivati e stavano arrivando nei paesi della CEE. Da quelle iniziative, volte a risolvere alcune ambiguità lessicali foriere di anacronistiche imprecisioni tanto nel linguaggio della burocrazia quanto in quello della istruzione pubblica, sorsero alcune indicazioni circa l’uso di immigrato e straniero. L’impiego del primo - si suggeriva - doveva essere riservato, da quel momento in poi, alle persone che avevano effettivamente migrato, ma doveva cessare quando queste si fossero stabilite in un luogo. Immigrato poteva e doveva riferirsi, insomma, null’altro che a uno status provvisorio, che poteva tra l’altro essere espresso più efficacemente da migrante. Si sarebbe invece dovuta usare con estrema cautela una parola come straniero, che evidenziava inopportunamente l’esclusione del designato dal “corpo della nazione”. Benché siano passati alcuni anni, se guardiamo alla lingua che comunemente utilizziamo tutti i giorni, ci rendiamo conto non solo di quanto quelle indicazioni siano state disattese, ma anche di quanto le discussioni da cui esse scaturivano siano state ampiamente ignorate.

La questione, è bene ripeterlo, non è soltanto terminologica: implica innanzitutto la messa in discussione di alcune categorie concettuali. Se si può assumere facilmente che le ‘etichette’ di extracomunitario e straniero siano, semanticamente, ‘escludenti’, poiché evidenziano non sull’appartenenza ad una comunità ma, per definizione, l’esclusione da essa, più problematica appare la distinzione fra immigrato e (im)migrante. Scegliere fra la forma participiale al presente invece che al passato significa scegliere (ed imporre) due visioni piuttosto diverse: (im)migrante pone infatti l’accento sulla provvisoria condizione del migrare, immigrato di contro relega ad uno statuto permanente, fissando e ‘congelando’ ciò che nella realtà è, appunto, un movimento fluido, e momentaneo. La sensazione di fissità aumenta quando si pensa all’imbarazzo che si prova nell’impiegare, per la cosiddetta ‘seconda generazione’, il nome di figli di immigrati, benché questi siano nati e vissuti in Italia. Che si farà con la ‘terza generazione’? Si userà l’ancor più improbabile nipoti di immigrati? È evidente che, anche e soprattutto fuori dalle accademie, si dovrà capire quali parole usare per riferirsi a quelli che fino a oggi sono apparsi come ‘altri’, ma che domani - con buona pace dei beceri sbraitî di Leghe e fascismi - saranno a tutti gli effetti cittadini italiani, seppur di religioni e di culture ‘minoritarie’ e perciò considerate come ‘diverse’, ‘strane’ e magari poco conciliabili con una supposta, ma del tutto teorica, italianità.

Forse si ricorrerà, come nei paesi anglosassoni, alle hypheneted-identities, le ‘identità del trattino’ (saranno infatti, quelle persone, partecipi di due o più culture: perciò sarà improprio chiamarli semplicemente marocchini, albanesi, pakistani, congolesi, servendosi degli etnonimi impiegati per designare i loro genitori, i loro nonni). Ma si tratterebbe, a ben vedere, di una soluzione parziale e non conforme alla realtà (bene è stato fatto notare che molti fra i figli degli immigrati, per essere nati in Italia e per non conoscere quasi la cultura - e spesso neppure la lingua - dei paesi dei loro genitori - non si sentono affatto italo-algerini piuttosto che italo-pakistani, ma semplicemente italiani, magari di religione islamica). O forse, più sobriamente, in attesa di poter chiamare chiunque semplicemente con il suo nome e cognome, si eviterà di creare artificiose appartenenze o distinzioni: si rifuggiranno nomi ed etichette (tanto più se queste, a seconda delle circostanze, risulteranno offensive, se possiederanno un significato spregiativo) che inchiodano ad una condizione, unica e permanente. Si apprenderà, forse, a tradurre nella pratica (se non in quella burocratica, almeno in quella delle relazioni sociali) ciò che certa (ottima) sociologia di scuola inglese - che da alcuni anni, e ben venga, gode di una certa fortuna anche in Italia - propone con il termine di “identificazione”: la possibilità di pensare alla propria (e quindi all’altrui) identità come a qualcosa di mobile, cangiante, non fissato - o per natura o per nascita - una volta per tutte. Come a qualcosa di socialmente - e continuamente - contrattabile, da sottoporre ad una sorta di costante, critica, osservazione (come, da artista, ha provocatoriamente suggerito Mireille Loup nella sua opera Chucun des mes visages, “Ciascuno dei miei volti”, 1992 ss.: una serie di fotografie scattate periodicamente - e, secondo l’idea dell’autrice, fino alla sua morte - come ricerca critica della propria identità): ciò che lo scrittore di origine libanese Amin Malalouf chiama, provocatoriamente, il proprio quotidiano “esame d’identità”. Un’identità che risulterebbe dalla sovrapposizione di una molteplicità di appartenenze (politiche, ‘etniche’, culturali, di classe, religiose, professionali, ecc.), e quindi dalla incessante identificazione di ciascuno ora con alcuni ora con altre componenti di questa molteplicità. Un’identità da scegliere. E non da subire.

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