Stanotte si riunirà il G7 per cercare di fare quello in cui hanno fallito le istituzioni americane, quelle europee e quelle internazionali finora intervenute nella crisi: dare una risposta globale a quella che è una crisi globale. La prima versione del piano Paulson ha, infatti, causato una spaccatura fra Governo e Parlamento Usa. Le riunioni del G4 di sabato scorso (delle quattro nazioni del G7 che fanno parte dell’Unione europea) e dell’Ecofin hanno poi nei fatti sancito la spaccatura dei governi europei sulle manovre da opporre alla crisi dilagante della finanza.
Oggi un articolo del Wall Street Journal lancia l’ipotesi di un prossimo intervento del Governo statunitense che ponga sotto la garanzia di Washington e in particolare della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), l’ente federale di assicurazione dei depositi, tutti i depositi Usa.
Le cifre danno l’idea della sproporzione delle cifre in gioco. Attualmente la FDIC ha quasi 45 miliardi di dollari nei propri fondi per l’assicurazione dei depositi. Con questa cifra già deve garantire circa 5.200 miliardi di dollari di depositi americani.
Se questa ipotesi del WSJ diventasse norma con quegli stessi 45 miliardi di dollari dovrebbe arrivare a coprire circa 7 trilioni di dollari (ossia 7 mila miliardi) di depositi bancari. Sarebbe l’ennesimo segnale di fiducia che le autorità Usa lancerebbero al mercato e potrebbe anche evitare che il panic selling o la fuga da diverse piccole banche americane verso i grandi gruppi causi altri fallimenti nel mondo del credito. Sarebbe di fatto anche una fotocopia di diversi provvedimenti dello stesso genere già attuati in Europa. Ma questo può bastare?
Dirlo è praticamente impossibile, anche perché l’unica manovra realmente coordinata a livello globale degli ultimi giorni è stata quella del taglio di mezzo punto percentuale dei tassi d’interesse da parte delle maggiori banche centrali del mondo. L’effetto è stato praticamente nullo.
I tassi d’interesse interbancari, ossia i tassi d’interesse che le banche applicano nei prestiti che si fanno fra di loro, sono rimasti di fatto invariati e quindi l’economia reale non ha potuto godere nessun vantaggio dal taglio dei tassi di sconto. Tutto questo porta al reale problema, ossia alla politica delle banche. Il fatto che l’Euribor e il Libor non abbiano reagito se non debolmente è indicativo.
Gli unici tassi interbancari sia in euro che in dollari che sono leggermente scesi sono stati quelli a breve scadenza mentre già dal medio termine in su gli spread con i tassi di sconto delle banche centrali sono aumentati ancora. Questo significa che le banche scambiano il minimo possibile e che, in pratica, accumulano liquidità. Il fatto che gli operatori primari, ossia le banche che accedono alle aste delle banche centrali, prendano il denaro a basso costo (con tassi ridotti ancor di più dopo l’ultimo intervento da mezzo punto) ma operino con tassi elevati, mantenendo per esempio elevate le rate dei mutui o il costo del debito per le aziende, significa in pratica che fanno cassa sulle spalle dei loro clienti.
In altre parole si fanno prestare il denaro a poco ma lo prestano a molto. Così probabilmente ammortizzano chissà quante perdite da svalutazione di asset più o meno visibili. Così drenano liquidità dai mercati e dall’economia reale. Così però scaricano anche su tutta l’economia il peso delle loro perdite. C’è da sperare che l’ingresso sempre più imponente degli stati nei loro fallimentari bilanci e magari nei loro consigli di amministrazione cambi rapidamente questo stato di cose. In fondo neanche le tasche di Pantalone, come dimostrano le capriole della Fdic americana e i malumori delle nazioni europee, sono sconfinate.